Non potevo cominciare diversamente perché è con Michelangelo Merisi detto il Caravaggio che ho iniziato a capire la complessità dell’arte.
Ne ho subito colto l’inquietudine e amato l’autenticità, quella capacità irresistibile di rappresentare le cose come accadono, senza fronzoli, simboli o accomodamenti.
Nato a Milano nel 1571, l’artista rimane in Lombardia fino a ventidue anni. Poi si trasferisce a Roma, dando spazio al suo genio e sventagliando un codice professionale libero che mescola tutti i generi non ritenendo, come voleva la chiesa, che i soggetti rappresentati andassero messi in ordine di importanza.
Per Caravaggio non c’è gerarchia tematica, perché “tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure”, vale a dire che un quadro di una canestra di frutta richiedeva lo stesso impegno di un quadro con figure.
Nella Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana di Milano ogni cosa è com’è nella realtà. Negli ultimi anni del Cinquecento, Caravaggio non preserva gli occhi dalla nuda verità: la foglia è secca, la mela è bacata, l’uva appare ancora impolverata.
Così come il giovane Bacco malato della Galleria Borghese, che appare livido in volto e la Maddalena della Galleria Doria Pamphilj che, stanca di posare, si addormenta mentre il pittore la ritrae.
Come una potente vetrina di cotanta grandezza e libertà, Caravaggio lascia a Roma nella cappella Contarelli presso la chiesa di San Luigi dei Francesi, a due passi da piazza Navona, le sue prime tre opere pubbliche.
La scena si affolla e il racconto deve illustrare la storia di tre momenti cruciali della vita di san Matteo.
Il martirio e la vocazione furono consegnati per il giubileo del 1600 e posti sui lati della cappella; mentre nel 1602, in seguito al successo ottenuto, gli fu commissionata la pala d’altare con san Matteo e l’angelo.
La prima versione (a sinistra), rifiutata dai committenti oppure forse non preferita dallo stesso artista, fu distrutta nel 1945 nel corso di un bombardamento ed oggi è possibile ammirarla solo in fotografia.
Nella seconda e definitiva versione tutto sembra reso con estrema essenzialità.
Siamo all’inizio del Vangelo di Matteo e l’angelo sta contando con le dita i vari passaggi della genealogia di Gesù, avvolto in un panneggio luminoso e leggero che lo fa volteggiare in aria.
Dall’altro lato, un uomo in carne ed ossa, sta scrivendo con attenzione quanto suggerito.
La complessità dello sguardo sempre obliquo di Caravaggio sembra essere concentrata nella precarietà della postura dello sgabello, che nel mezzo della scena diventa quasi un simbolo dell’instabilità dell’esistenza.
Nella chiesa di Sant’ Agostino, Caravaggio lascia la Madonna dei pellegrini di Loreto, dipinta nel 1603.
È facile immaginare quanto scalpore dovette suscitare la semplicità con cui l’artista scelse di dipingere la madre di Gesù, scalza come una popolana qualsiasi (la sacralità è resa solo da una sottile aureola), con le gambe incrociate e in braccio un bimbo ormai troppo grande, di fronte a due umili pellegrini inginocchiati coi piedi logori.
Mai nessuno aveva osato rappresentare la chiesa di santa Maria di Loreto in un modo così terreno, senza angeli e priva di simboli sacri.
Caravaggio vi alluse con la essenzialità di uno stipite e di un grosso scalino, a memoria di una delle tante case poste lungo i vicoli di Roma, forse l’uscio della sua stessa casa romana ancora oggi esistente in vicolo del Divino Amore 22.
Su questa stessa linea di assoluta verità non va taciuta certamente la basilica di Santa Maria del Popolo.
Qui, nella cappella Cerasi, ci aspettano altre due opere intrepide del maestro.
Nella crocifissione di san Pietro e nella conversione di Saulo, dipinti agli inizi del Seicento, la storia sacra diventa umana.
Gli uomini sembrano tutti uguali, siano essi vittime o carnefici, mentre il dettaglio dei particolari serve a raccontare ogni cosa com’era. Persino il deretano di un uomo e di un cavallo che l’artista sceglie di porre al centro della tela.