
Questa mattina sul presto vengo attivata dalla mia amica Monica (“l’altra metà della mela”, come sottolinea il marito Pierpaolo: stessa testa, stessa inquietudine). Mentre faticavo per estraniarmi da tutto nell’ombra di un giardino, mi manda una foto di una piccola tempera, realizzata da uno dei suoi simpatici amici senza casa che va a salutare ogni tanto. È su carta, incomprensibile, ma è una toppa nel delirio. Basta uno sguardo ed anch’io resto catturata dall’acidità di quel verde in cui tutto è caduto. Dopo averne apprezzato la discreta mano, ci perdiamo ad interpretarne il senso. Io vedo Robespierre, Gesù Cristo ed un cane con la testa mozzata. Anche lei si sofferma sul cane. Quel corpo senza testa ci racconta qualcosa di profondo, una violenza pacata dal dolore. Le chiedo di farselo raccontare ma lui è muto ed ha ragione perché l’arte non si spiega. Mi dice che ha cercato di comprarlo ma non c’è stato verso di averlo. E, dopo mezz’ora di trattativa, alla vista di un coltello, ha deciso di andar via.
Cosa resta? La convinzione che l’arte, indipendentemente dal talento, sia una necessità umana. Mi piace ogni tanto riflettere su questo e sul valore negato della follia, che consente di riflettere in libertà sul confine dell’identità, sulla consapevolezza delle esperienze, sulla modalità di percepire a voce alta dentro di sé l’esistenza.
La follia non è solo disagio o malattia. Essa, con la sua forza fuori contesto, è in grado di guardare il mondo in un altro modo, traducendo anche ciò che è invisibile agli occhi. E il linguaggio dell’arte, qualunque esso sia, consente di rappresentare tutto questo.
C’è un fil rouge, innegabile, che unisce arte e follia.