
È andato via, anche lui vittima del COVID, il critico d’arte genovese Germano Celant.
Sul finire degli anni ’60 firmò il manifesto di «Arte povera. Note per una guerriglia», il noto movimento artistico che, in opposizione all’arte celebrativa del consumismo, spingeva verso la riappropriazione del rapporto Uomo-Natura, rimarcando l’importanza del gesto artistico.
Pubblicato su «Flash Art» nel 1967, avrebbe influenzato per decenni la politica dell’arte italiana e, in parte, europea.
Convinto di non inventare niente, Celant spinse poeticamente all’utilizzo visionario di materiali poveri e deperibili, richiamando attorno a sé artisti ancora oggi noti in tutto il mondo, del calibro di Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini e Pino Pascali.
Precocemente indirizzato verso una visione manageriale dell’arte, vedeva nel museo un luogo di consumo, che dovesse sedurre ed attirare a sé i propri fruitori. Fu il primo ad annodare i fili di arte contemporanea e moda, aprendo all’argomento nel 1996 con una mostra a Firenze e nel 2000, al Guggenheim Museum di New York, con una grande retrospettiva di Armani. Fino all’ultima esperienza con Miuccia Prada e la sua Fondazione, nella cui sede veneziana organizzò nel 2013 una ricostruzione della mitica mostra «When Attitudes Become Form» di Szeemann del 1969, e nel 2017 la prima retrospettiva postuma di Jannis Kounellis.
Ha consegnato alla storia la grande mostra-evento «Arte Povera 2011», allestita in quell’anno contemporaneamente alla Triennale di Milano, al MAMbo di Bologna, alla Galleria Nazionale e al MaXXI di Roma, al Museo Madre di Napoli, al Teatro Margherita di Bari e al Castello di Rivoli.
Per approfondire:
https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/il-potere-logora-chi-non-celant/133218.html