
Il mondo dell’arte comincia a dare i primi importanti segni di sofferenza.
La pandemia non risparmia nessuno e i musei di tutto il mondo, dopo essere stati chiusi per mesi e riaperti da poco, registrano cali di ingressi notevoli. Il digitale è stato importantissimo, aguzzando l’ingegno di direttori e curatori sparsi alle varie latitudini, per dare ossigeno a proseguimenti, allestimenti e presentazioni in rete.
Ma evidentemente non è bastato e non basta.
Il caso più eclatante degli ultimi giorni è quello del Metropolitan Museum of Art di New York, uno tra i musei più grandiosi e noti, dove i vertici si sono visti costretti a trattare con case d’aste e curatori di collezioni per vendere alcune opere, per cominciare a coprire un deficit che ammonta intorno ai 150 milioni di dollari.
Nonostante gli sforzi enormi, il duro lavoro e i benefici del web, la gravità della pandemia confonde tutti e non consente lucide previsioni per il futuro, spingendo alla vendita delle proprie opere d’arte, un’eventualità considerata assolutamente inopportuna ed immorale fino a questo momento.
In altri musei, anche italiani, invece, si ricorre al taglio degli stipendi mentre alcuni direttori, facendo seguito ad una lettera scritta un paio di mesi fa, provano a immaginare una più ampia rimodulazione della funzione e della performance museale, pensando a centri formativi e campus significativi nel processo di crescita culturale e sociale del territorio ospitante, con programmi rivolti a bambini e adolescenti, a cittadini, artisti e studiosi.