
Le donne pittrici, nella storia dell’arte, sono poche, pochissime. Come non ricordare, tra queste, Artemisia Gentileschi?
Figlia d’arte, Artemisia nasce a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio e Prudenzia di Ottaviano Montoni, primogenita di sei figli. Il padre, nativo di Pisa, trasferendosi nell’Urbe acquista forza confrontandosi con il genio di Caravaggio e la sua potente drammaticità del quotidiano.
Nel 1605 diviene orfana di madre ed è, presumibilmente, in questo periodo che avvicinandosi al padre si appassiona alla pittura, dando vita da subito ad una serie di falsi e pruriginosi pettegolezzi sul rapporto tra padre e figlia.
Rimasta anche lei perdutamente affascinata da Caravaggio, si confronta con la sua pittura dal vero, pur filtrata dallo stile più raffinato del padre.
Nel 1611 viene stuprata dal maestro di prospettiva Agostino Tassi, collega ed amico di Orazio, che le promette un “matrimonio riparatore” per calmarla e salvare l’onore.
La parola data non è rispettata e l’anno dopo, alla fine del febbraio 1612, parte la denuncia contro il pittore.
La donna viene sottoposta sotto tortura a interrogatori da parte delle autorità giudiziarie per verificare la veridicità delle sue accuse: sostiene, così, di aver subito violenza sessuale, racconta delle frequenti visite di Tassi nella sua casa e del rapporto discutibile stretto con Tuzia, locataria del padre Orazio, dichiarando anche di aver saputo tardivamente che il pittore fosse già sposato.
Dall’altra parte, la difesa del pittore insinua da subito una promiscuità della pittrice, da lui definita “donna insaziabile”; accusa che Artemisia respinge accettando di provare la sua verginità precedente allo stupro e subendo la tortura dei sibilli, che procurano lo stritolamento delle dita con delle cordicelle.
Alla fine, il 27 novembre 1612, Tassi viene condannato per deflorazione della pittrice, corruzione di testimoni e diffamazione del padre Orazio.

Il giudice gli impone di scegliere: cinque anni di lavori forzati o l’esilio da Roma. Il giorno seguente Tassi sceglie l’esilio.
Dopo la sentenza e lo scandalo suscitato dal processo, Artemisia viene destinata dal padre ad un matrimonio riparatore con il pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi. Artemisia lo sposa il 29 novembre 1612 nella Chiesa di Santo Spirito in Sassia, a due giorni dalla sentenza del processo.
La pittrice comincia un’attività piena, mostrando talento ed esibendo una personalità ben definita che le consente di distinguersi anche dal padre, spostandosi tra Firenze, Roma, Venezia e l’Inghilterra.
A Firenze lavora per la corte medicea e per diverse committenze private: «Artemisia pitturessa» è tra gli artisti salariati dal granduca e nel 1616 è la prima donna a essere iscritta all’Accademia del Disegno di Firenze. Lì incontra Francesco Maria Maringhi, un gentiluomo fiorentino suo coetaneo, con cui comincia un’intensa relazione amorosa.
Trasferitasi a Roma, Artemisia vive nel quartiere di Santa Maria del Popolo riuscendo ad immergersi presto nel giro della comunità artistica romana. Maringhi la raggiunge, mentre il marito scompare dalla sua vita. Tra il 1627 e il 1630 numerose testimonianze attestano diversi passaggi della pittrice a Venezia.

Poi giunge a Napoli dove, ammiratissima dall’aristocrazia e dalla comunità artistica partenopea, riceve numerose e importanti commissioni.
La sua fama cammina per l’Europa e in Inghilterra suo padre Orazio, che vive a Londra già dal 1626, la promuove presso la corte degli Stuart. Anche Carlo I d’Inghilterra acquista alcune sue opere.
È una donna interessante e non perde occasioni di confronto: avrà contatti epistolari con Galileo Galilei, con il granduca di Toscana e con il duca di Modena.
Ritornata a Napoli, trasforma il suo studio in un laboratorio di giovani pittori che collaborano alle sue commissioni. Nella città partenopea muore, venendo seppellita presso la Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini.
Artemisia dipinge in grande, affrontando grandi temi e dedicandosi ad opere di ambito religioso e biblico, realizzando straordinari ritratti.
Abbraccia la lezione caravaggesca, scegliendo tagli ravvicinati che consentono un rapporto emozionale con lo spettatore. Nei corpi vivi e maestosi e negli sguardi dei suoi personaggi compaiono sempre una visibile profondità ed una ricerca psicologica intensa. L’espressività dei volti raggiunge una potenza palpabile ed una varietà poetica che ne definiscono la cifra stilistica. La regia scenica, grandiosamente barocca, mette tutte le sue figure su un palcoscenico drammatico di vita, segnato da potenti contrasti di luce.

Amatissima e simbolica è la reiterata interpretazione di Giuditta che decapita Oloferne, in cui sembra venir fuori tutta la sua rabbia per il dolore e il torto subiti.
Nella sensualità dei corpi femminili e nella severità delle pose è riconoscibile la sua figura.
https://www.lescargot.it/artemisia-gentileschi-e-il-suo-tempo-museo-di-roma/