Qualche settimana fa incontro per caso, sul web, Eliana Petrizzi e resto inchiodata dinanzi al velluto scarlatto delle sue parole. Immergo gli occhi nel drappo, accarezzo la trama, scruto e in pochi minuti avvisto i suoi lavori, tirati fuori a sbalzo con la punta del pennello. Una bella sorpresa. Il buon vento aveva soffiato nella mia direzione la scrittura e la pittura, insieme: le mie due migliori amiche.
Sfoglio il suo carnet di opere, evocative e rituali. Nulla è seriale, nulla è ripetibile. Paesaggi che conducono via, volti scavati nel marmo del tempo, corpi come strade da percorrere a piedi scalzi nella polvere, spazi muti che attendono.
Ritorno alle parole e incappo nel suo pezzo sul terremoto in Irpinia, un macigno nella mia memoria. La sento vicina e decido di contattarla. Mi risponde subito ma vive a Montoro: troppo lontano per incontrarsi, in questo momento della mia vita.
Strano pensare a come la vita, a un certo punto, avvicini due estranei…
Provo a immaginare il suo forziere e le sue giornate impregnate di provincia. La vedo all’opera. Ogni artista ha il suo luogo chiuso, il suo convento, dove ripararsi dal freddo e gestire i pensieri e gli stati d’animo della creazione, quando il dolore è pronto a diventare bellezza. È così, lo so. E io ho sempre voglia di entrare in quello spazio vero, a sporcarmi le mani e le idee di colori.
Sei nata a Montoro? Le chiedo
“Sono nata ad Avellino, ma risiedo da sempre a Montoro. Nella vita ho girato il mondo, per passione personale prima e per lavoro poi. Ho visitato i musei, le fiere e le grandi mostre, dove ho capito che il contemporaneo ha linguaggi e un sistema comune a tutti gli artisti che contano. Devo dirti, però, che altrove la mia è stata un’esperienza fallita: quando ho provato a fare il salto trasferendomi, frequentando mostre, salotti e piattaforme di mercato, quello che ho visto mi ha spaventata. Non mi sono piaciuti gli atteggiamenti, le condizioni, la violenza richiesta per arrivare. Così ho rinunciato, in cerca di una dimensione più raccolta. Montoro mi ha insegnato i pregi delle difficoltà; mi dona piccoli frutti saporiti, mi educa alla pazienza e alla misura, e ad apprezzare ciò che riesco a costruire, per poco che sembri. Quando si racconta di artisti come me, c’è ancora qualche critico che parla di ‘artisti italiani’, o peggio di ‘artisti locali’, come se restare sul territorio, radicarsi nella propria comunità culturale, militare in contesti difficili, non abbia una sua dignità e non meriti per questo rispetto. Pare si valga solo se ci si immola alle grandi metropoli, dove confrontarsi tante volte significa piegarsi alla macchina bieca della competizione, muniti di un’ambizione fatta più di furbizia, calcolo, vanità e capacità di vendersi, che di talento. La mia pittura guarda indietro, nell’amarezza del tempo presente. E se non guarda indietro guarda in altre direzioni; quasi mai guarda intorno, verso un mondo a digiuno di quiete, di simboli e di archetipi comuni. È un mondo, il nostro, che stimola senza consolare, che educa all’immensità del vuoto, nella fretta di una corsa sul posto. A me invece piace camminare piano, dipingere opere molto piccole e una per volta, immaginando il calore di una casa in cui gente modesta fa il proprio dovere, in una pace di poche parole. Mi piace lavorare con cura come si stira una tenda. So per certo che il mio quadro non andrà lontano, ma è contento così.”
Unico compagno d’atelier è un colombo, il più comune degli uccelli, che Eliana ha lucidamente chiamato Sgorby, forse a compensare la sfacciata fortuna di essere adottato come un piccolo umano. M’incuriosisco.
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Perché Sgorby è stato accolto con tanto amore?
“Forse perché è capitato, a conferma che le grandi storie d’amore, di qualsiasi natura siano, non vogliono né attese, né calcoli né pensieri. Sgorby è entrato per caso nella mia vita, e io l’ho accolto con gioia. In questi mesi mi sono spesso sentita dire: “Saresti stata un’ottima madre”, o peggio: “Invece di perdere tempo con un piccione, perché non fai un figlio?”. Rispondo che per fortuna, tra le mie turbe mancano l’antropocentrismo e la coazione a ripetermi. Non sono madre per scelta, e a rimpianti zero. Ho invece sempre avuto un amore quasi mistico per gli animali. La natura è fatta di una enorme varietà di esseri viventi differenti tra loro, e io penso che se quello tra umani è un dialogo tra creature della stessa specie, quello con un animale è un’esperienza straordinaria, di tipo quasi fantascientifico, per dirla sorridendo. Con un animale non funziona il linguaggio verbale, né le molteplici complicazioni psicanalitiche e sociali che corredano le relazioni tra esseri umani. Bisogna trovare altre strade, spingersi su territori differenti. Da quando è caduto dal nido ad oggi, ho dovuto sopportare ogni genere di battute sulle molte ricette in cui è possibile cucinare un piccione, oltre che sul mio amore per gli uccelli, che a quel punto ho dovuto chiamare volatili o pennuti, per non incorrere in prevedibili doppi sensi. Naturalmente, ho accettato tutto questo con ironia. Ma vorrei dire che salvare da morte certa un esserino indifeso, prendersene cura ogni giorno, tenerlo libero in casa vedendolo crescere, crea un legame reciproco molto forte. Un uccello non è un bambino, non è un cane e nemmeno un gatto. È una creatura nata per abitare l’aria e gli spazi più precari. Anche piccoli segni di empatia diventano preziosi con un uccello, perché difficili. Sgorby per me non è un colombo, ma l’esperienza poetica più alta mai vissuta nella vita, la più tenera, la più luminosa. Lui vive e io ne sono stupefatta, perché mi chiedo ogni minuto da dove viene la luce dei suoi occhi, l’intelligenza della sua testolina che gli fa prendere decisioni imprevedibili; la forza delle sue zampette, la consistenza di pura seta del piumaggio, la potenza sorprendente con cui si libra in volo sull’isolato. Lo guardo da lontano e quasi non lo riconosco, e lo stimo immensamente, perché lui sa volare. Lui può, sfruttando le correnti, restando in bilico su appoggi precari, e da una distanza che a me pare enorme mi riconosce, e torna da me. Così, da abitante dell’aria ridiventa l’esserino trovato appena nato, con la luce nuda dello sguardo e la fragilità fiduciosa nella vita. Qualcuno mi dice che sono ridicola, che questo legame è innaturale. Ma io penso a tutte le volte in cui abbiamo amato qualcuno nella vita credendo fosse quella la persona giusta per noi, e invece era solo l’amore che amavamo.”
Gli oggetti in cui è immersa Eliana raccontano una storia di archetipi e temi irrisolvibili, di intimità e riflessioni precarie, dove la cura per le cose svela un amore non protetto per la vita in cui niente è al sicuro. Tutto nasce e muore. I suoi dipinti hanno qualcosa di ancestrale, come la paura del buio con cui veniamo al mondo addossata a tutti quei pensieri improvvisi, che arrivano senza bussare come ospiti inattesi ed entrano in scena con passi lunghi ed ombre nette, sbattendo contro la luce mentre l’esuberanza delle forme ne accentua la dimensione tattile.
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Cosa rivelano i tuoi quadri?
“Il quadro si racconta in un percorso di simbologie spirituali: la vita, la morte e la loro convivenza; la metamorfosi, l’armonia di ciò che è riunito in un universo ordinato, il principio della vita portatrice di intelligenza e stupore, oltre i dolori della consapevolezza.”
Eliana per dipingere ha bisogno di pace:
“Stacco il citofono, non rispondo al telefono, non apro la porta. Passano i giorni: il lavoro è lento, meticoloso, specie quando dipingo i volti. Si tratta di un lavoro di più fasi: preparazione della tela con gesso, colla di coniglio, aceto e miele. Poi disegno, quattro stesure di colore ad olio, almeno sei di velature. A lavoro compiuto metto il quadro ad asciugare all’aria aperta, così che il colore, ritirandosi, trattenga in sé la splendida giornata, le intemperie, l’odore della stagione in corso, i suoni degli eventi che accadono intorno. L’arte è per me un progetto globale, che ha a che fare cioè con tutti gli aspetti della vita. Quando un pittore crea un’opera deve infine porsi questa domanda: “Cosa ho messo al mondo?” Essere artista vuol dire aprirsi, riempirsi e restituire agli altri ciò che hai sentito. Vuol dire captare una gamma di frequenze emotive e concettuali che devono poi essere portate nell’opera affinché ad essa partecipino gli altri. Il lavoro dell’artista è un lavoro faticoso fatto di attenzione, di ricerca, di ascolto e di grande responsabilità; fatto più di disciplina, sacrificio, rigore e regole che di libertà scomposte, come si è portati a credere di solito pensando all’arte e agli artisti. È la forma più alta di esercizio ispirato. In fondo, ogni artista non parla che di sé, e non si occupa che di se stesso; ogni sua opera non è che un tentativo di sbarazzarsi dei suoi aspetti migliori, come dei più esecrabili. Che poi questo svuotamento possa essere utile a qualcun altro è un effetto collaterale, a volte addirittura imprevisto.”
Conoscendoti sono riuscita a cogliere qualcosa di essenziale. Questo mondo ha bisogno di poesia.
Grazie, Eliana.